Il mio viaggio a Mauthausen

Il ricordo è una delle cose più pericolose che abbiamo. Può ucciderci, trasformarci, può cambiarci, può migliorarci, costruirci, rafforzarci, può azzerarci e renderci ciechi con la sola forza delle nostre menti, con la sola forza delle nostre debolezze.

Siamo noi i responsabili della nostra vita, e di conseguenza siamo noi i responsabili dei nostri ricordi; possiamo scegliere se vivere nel ricordo o vivere ricordando, e io quel giorno di Marzo, ho deciso di vivere ricordando per onorare la memoria di milioni di vite, di milioni di ricordi sofferti, racchiusi in un unico luogo: un luogo di sterminio, di abbandono, di crudeltà, un luogo disumano dove il valore della parola vita si azzera e perde tutta la sua dolcezza e felicità.

Disumano è l’unica parola che possa descrivere quel luogo, il luogo dove ognuno di noi ha lasciato un pezzo di cuore, di corpo, di anima, un pezzo di vita depositato tra le macerie di sogni infranti.

Quante anime sono state distrutte, logorate, uccise, spogliate dalla loro stessa vita? Quanto è stata dura la loro permanenza nel labirinto?

Come hanno fatto ad uscire da questo labirinto di dolore, che è la vita?

Come hanno fatto uomini, donne, bambini, a trovare una via di fuga dal dolore causato dal

disprezzo e dal tradimento di quelli che prima erano i loro compagni e fratelli? Come hanno fatto a trovare la forza di ricordare? Di non dimenticare. Di non subire il dolore provato, ma di ritrovare la forza di vivere e di provare ad essere felici?

Spesso durante e dopo la visita al campo mi sono chiesta se le persone segregate all’interno abbiano mai provato una sensazione che si avvicini più o meno al gusto dolce della felicità; mi sono risposta ricordandomi del libro di Gibillini, nel quale raccontava la sua contentezza e felicità quando riceveva una porzione sostanziosa di zuppa o quando sentiva il caldo profumo di caffè la mattina.

Tutto ciò ci mostra quanto dolore avevano dentro queste persone e quale era il loro termine di felicità, rovinato dalla cattiveria che si nascondeva tra quelle mura.

In camera mia, posto subito di fronte al letto, in modo tale da poterlo vedere ogni mattina al mio risveglio, ho attaccato un piccolo cartellone sul quale è riportata una breve frase “live a life you will remember”: vivi una vita che ricorderai.

Ho scritto questa citazione dopo la visita al campo di Mauthausen; cosa c’entra ci si potrebbe chiedere?

Perché così ogni giorno mi ricordo di vivere al meglio la mia giornata e la mia vita, in modo da poter lodare ed onorare coloro che alla fine del loro viaggio sono rimasti soli, con le loro anime ormai consumate e distrutte dal dolore e dalla disperazione, ormai stanche di ciò che il ricordo e le immagini di tutto quello che hanno subito gli provocano e schiacciati dalla loro stessa vita.

Questo è quello che ogni giorno memorizzo: viviamo una vita che domani ricorderemo, viviamo una vita che tutte queste anime perdute non sono riuscite a vivere; facciamolo per coloro che non hanno dimenticato, che non hanno mai perso la speranza, che non hanno mai smesso di credere nella vita, che sono riusciti a trovare una via di fuga dal dolore e dalla mancanza, perché è bello essere uomini e noi dovremmo esserlo un po’ più spesso.

Gabriel Marquez prima di morire si era chiesto: “come farò ad uscire da questo labirinto?”, per molto tempo ho riletto questa frase ma non sono mai riuscita a trovare una risposta. Ora, dopo essere stata testimone alla più grande crudeltà compiuta dall’uomo, posso affermare che non si può uscire da questo labirinto. Perché?

Perché tutti gli uomini, le donne e i bambini che hanno perso la vita in quel campo di tortura sono qualcosa di più grande della somma delle loro parti, sono qualcosa di più bello e di più forte del corpo a cui appartengono e il loro ricordo, il loro non dimenticare, la loro testimonianza, non potrà mai svanire, ma vivrà sempre nelle loro anime e nelle nostre, perché il loro labirinto non è ancora finito e mai finirà; hanno ancora tutta una vita davanti, una vita da sconfiggere.

Le ultime parole di Thomas Edison furono: “Com’è bello laggiù.”. Non so dove sia laggiù, ma io credo che da qualche parte esista e spero sia bello.

Arianna Genesio


Il mio viaggio a Mauthausen

Quella mattina non mi ero nemmeno immaginata di provare emozioni così forti.

Salendo sul pullman che ci doveva portare a destinazione, parlavo con le mie amiche e intanto cercavo di immaginare cosa pensavano o provavano i deportati che percorrevano miglia e miglia in quel treno freddo e malandato che li avrebbe portati a morte certa.

Arrivata al campo, appena uscita dal pullman, mi accorsi subito del vento gelido che mi spezzava le gambe e io ero coperta.

Alla mente mi vennero subito i deportati che indossavano un misero pigiama di lino.

Dal campo vedevo un panorama magnifico, quasi non credevo che lì fosse accaduta un' atrocità simile.

Il campo di Mauthausen si trova sopra una collina nascosta da un boschetto, come se le SS si fossero vergognate di quello che facevano, se ti vergogni perchè lo fai?

Usciti dal parcheggio del campo ci fermammo in un piazzale dove lì in passato alloggiavano le SS e non mi capacito di come sia possibile tornare a casa tranquillo la sera sapendo che uccidi persone innocenti.

Entrammo nel campo attraverso l' ingresso degli automezzi.

Prima, però, il professor Barbarello – la nostra guida – ha insistito perchè noi mettessimo le mani sulle mura del campo di Mauthausen, costruite dai deportati.

Poggiando le mani su quelle pietre ho provato ad immaginare la persona che aveva messo lì quella pietra.

Entrammo nel campo e la nostra guida ci fece fermare e ci fece vedere dove alloggiava il capo del campo.

Il capo alloggiava DENTRO al campo con la sua famiglia.

È inquietante sapere che i suoi figli vivevano in un ambiente pieno di sofferenza e di crudeltà.

Entrando nel campo di Mauthausen, dall' ingresso “ufficiale” - cioè quello dei deportati – il vento si calmò per un attimo in segno di rispetto.

Ci fermammo vicino alla porta e il prof. Barbarello cominciò a spiegare, ammetto che ascoltavo a tratti ciò che diceva, perchè dentro di me c' era un' alluvione di emozioni.

Mi sentivo strana, un po' fuori luogo come se muovendomi avessi urtato l' anima di qualche deportato.

Il campo – a oggi – consiste in un grande piazzale con i blocchi dei deportati che erano disposti parallelamente ai lati ed era tutto costeggiato da mura di pietra sulle quali si ergevano filamenti di filo spinato, al tempo elettrificato.

Ci fecero entrare nei blocchi, ora vuoti, pieni di morte.

Ci fecero sedere sulle ante di legno scricchiolanti che facevano da pavimento, avevo l' impressione che da un momento all' altro cedessero.

Eravamo in 145 persone e tutto sommato si stava abbastanza larghi.

Ma a quel tempo, in un blocco, di persone ce ne stavano 800/900, se andava bene.

Dentro al blocco faceva meno freddo rispetto a fuori nel piazzale, ma io avevo il giubbotto.

Usciti dal blocco andammo a vedere le prigioni di Campo, come se quel posto non fosse già stato una prigione.

Ad alcuni prigionieri poi era riservato il “muro del pianto” su cui erano legati e lì venivano liberati dei cani molto aggressivi, che avevano persino loro più diritti dei deportati.

Poi andammo a visitare le docce dei deportati da cui prima partiva un getto d' acqua bollente e poi un getto d' acqua gelata.

Usciti dal campo un gruppo andò a mangiare, mentre l' altro andava a visitare il sottocampo di Gusen I che è stato trasformato in abitazioni, come se non fosse successo nulla.

Il museo e il memoriale di Gusen avevano immagini raccapriccianti.

Quella giornata mi aveva privata di emozioni e continuava a riempirmi di immagini agghiaccianti di ciò che succedeva nei campi.

Dopo Gusen tornammo a Mauthusen a vedere il forno crematorio, ma la cosa che più mi ha sconcertato è stata la Stanza dei Nomi, il nome la descrive.

Una stanza con dei pannelli che ne coprono quasi completamente tutta la superficie.

La stanza era in penombra con enormi pannelli neri su cui risaltavano, illuminati in bianco, i nomi di tette le persone morte dentro quel campo.

Non ci sono neanche le parole per descrivere ciò che ho provato in quella stanza, erano tutte e nessuna emozione.

Usciti da quella stanza visitammo un museo, sempre al Campo, e anche lì c' erano immagini shock che credo mi ricorderò sempre, c' erano oggetti oggetti appartenuti a deportati e mi sono chiesta a chi erano appartenuti quegli oggetti.

Usciti da lì andammo alla cava dove lavoravano i deportati.

Era avvilente sapere che stavo camminando sugli stessi sentieri che avevano percorso e ripercorso i deportati.

Siamo scesi dalle scale della morte – chiamate così perchè le SS si divertivano a mettere i deportati in gruppetti da cinque, caricare loro una pietra sulle spalle, farli salire sulle scale e arrivati all' apice della salita spingerli giù – erano 500 scalini di pietra discontinui.

Ci fecero sedere sulle scale e mentre il professor Padovani suonava il flauto, il prof Lepore, la prof Cannella e il prof Barbarello hanno letto brani del libro di Liliana Segre che raccontava la sua storia di ragazzina ebrea deportata.

In quel momento percepivo tutto: gli uccellini che cinguettavano, l' umido nell' aria, i colori della cava al calar del sole.

Era come se i miei sensi si fossero affinati.

Finito di leggere i professori ci hanno detto di trovare un nostro luogo nella cava in cui concentrarci per scrivere i nostri pensieri e le nostre emozioni.

Ecco cosa penso: solo ricordando si può rimediare agli errori commessi, dimenticando, la vita di milione di persone innocenti sarà stata sacrificata invano.

L' unica medicina: RICORDARE e NON DIMENTICARE.

Beatrice Marvulli